Dove tutto ebbe inizio.
Ero appena entrata nel
mio paese dei balocchi.
Una sala enorme, con
illuminazione discreta e persone che si muovevano, se osservavo solo le loro teste,
come se fossero su un campo di pattinaggio.
Fluivano volteggiando,
chi concentrato, chi con gli occhi chiusi, chi con gli occhi volti a terra,
qualcuno sorridendo.
Uomini e donne, ma le
donne erano più belle: vestiti eleganti, neri principalmente, ma anche
colorati.
Una cosa avevano in
comune i loro abiti: erano svolazzanti, grazie a spacchi generosi lungo i
fianchi, o a causa della loro attenta fattura sartoriale, ricca di morbidezze generose che, ad ogni volteggio,
continuavano autonomamente il movimento iniziato dalla ballerina per poi
richiudersi composte solo qualche secondo più tardi.
Gli uomini che le
abbracciavano erano più vari nello
stile. Alcuni perfetti, con vestiti neri e giacca scura, altri più informali:
pantalone e camicia maniche lunghe.
Qualcuno era decisamente più sportivo, con
magliette mezze maniche, come per ribellarsi
ad una tacita etichetta di eleganza che avvolgeva la sala.
Le luci erano soffuse
e lungo le pareti c’erano tavolini con tovaglie rosse e piccole candele
danzanti nei loro bicchieri che ovattavano il tutto sfumandone i contorni.
In fondo, sul palco,
la postazione del musicalizador dominava tutti con discrezione: il contorno del
volto era seminascosto dal computer aperto, su cui egli era concentrato nella
scelta dei brani da proporre. Un occhio alla sala e un occhio alla compilation.
La scaletta musicale era
importantissima, come il pavimento e l’illuminazione, per rendere la
serata perfetta.
Ma il musicalizador
sembrava essere all’altezza della situazione, e la sequenza dei brani: tre vals,
quattro tanghi, tre milonghe e quattro
tanghi a rotazione sembrava soddisfare la platea dei ballerini.
Erano in molti sulla
pista, infatti, e ad ogni cortina, lo stacchetto musicale che intervalla un
gruppo di brani dall’altro, il flusso ritornava composto alle sedie, per poi ripopolare
la pista alla partenza del successivo gruppo di brani
Erano gli uomini che,
secondo il galateo dell’ambiente tanguero, invitavano le donne, alcune delle quali li avevano già scelti con gli
occhi (la mirada, sempre secondo il galateo).
Altre, meno avvezze a queste
abitudini, aspettavano fiduciose, sventagliandosi con atteggiata noncuranza.
Nonostante la pista si
riempisse ad ogni tanda (il nome di ogni gruppo di brani), molte persone
rimanevano ancora sedute. Magari per riposare, o forse per mancanza di inviti.
Con disappunto notai,
infatti, che erano più donne che uomini, le persone sedute.
“Peccato che anche in
questo ambiente ci siano più donne che uomini”, pensai.
Poi il biglietto di
entrata, la conquista del tavolino prenotato ed una veloce svestizione ci
permisero di arrivare al momento clou: infilare le scarpette da tango.
Un rito che trasforma
chiunque, come se si fosse appena scesi dalla zucca per apprestarsi a salire la
scalinata del castello reale e le scarpe da ballo ne fossero il lasciapassare.
Seduta al mio posto,
con il sicuro accompagnamento di ventaglio e bottiglietta d’acqua sul tavolino
al mio fianco, osservavo finalmente i piedi dei ballerini di quello che, per
una appassionata di tango come me, rappresentava un meraviglioso paese dei balocchi personale.
Mi scorrevano davanti
sandali luccicanti, colorati o più discreti, dalle forme varie, ma tutti con
tacchi altissimi, che avvolgevano piedi
impegnati in deliziosi piccoli passi a ritmo di musica.
I piedi degli uomini,
vestiti da eleganti scarpe legate e perfettamente lucidate, riempivano il vuoto
lasciato sul pavimento dai piedi delle dame, e facevano da guida e sostegno per
le meravigliose figure che molte di esse mi regalavano.
Disegni fatti sul
pavimento da punte che interpretavano ochos e abbellimenti si alternavano ad arabeschi
fatti nell’aria durante bolei o ganci richiesti
dal partner o rubati al tempo del ballo.
Qualche coppia si limitava a interpretare i tanghi con semplici
camminate e poche divagazioni, ma la moltitudine si divertiva con
l’improvvisazione di figure eleganti, mai viste in nessun altro ballo.
Ed il flusso di ballerini
mi scorreva davanti, seguendo la ronda, il percorso antiorario che le
regole del ballo impongono.
Un tango, due tanghi,
tre tanghi.
Osservavo tutti quelli
che riuscivo, cercando volti conosciuti. Ma era la prima volta che entravo in
quella sala.
Avevo iniziato a frequentare
la scuola di tango in un’altra città a cento chilometri di distanza, e, dopo
sei mesi di lezioni, avevo finalmente preso coraggio e seguito la mia maestra
fino a Torino.
Torino, è, dopo Parigi,
la città europea più importante per il
tango argentino .
Erano, quindi, per me
tutti bravi e bellissimi da vedere. E non vedevo l’ora di diventare come loro.
Era finita la tanda.
Dopo la cortina ripartiva
una nuova tanda: questa era la volta dei vals.
La mia maestra si era
alzata , invitata da un bravissimo tanguero di sua conoscenza e io ero rimasta
lì, in attesa.
Poi un volto
sconosciuto, in abito scuro elegante, giunto davanti a me, mi chiese: “Balli?”.
“Si. Grazie” risposi,
alzandomi anche io.
E iniziò la mia nuova
vita.
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